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L’olio e l’ulivo nell’Agro Romano antico

Nella sua villa, alle porte di Tivoli, l’imperatore Adriano aveva due sterminati uliveti che producevano l’“oro liquido”, costoso e prezioso.



01 febbraio 2016 - Villa Adriana Tivoli

A febbraio, gran parte dell’olio nuovo extravergine di oliva, ha maturato i suoi profumi. E', quindi, uno dei momenti migliori per assaporarlo e apprezzarne pienamente l’inconfondibile gusto fruttato. In inverno, magari davanti ad un camino, sappiamo che è sempre molto piacevole e nutriente “bruschettare” qualche fetta di pane “casereccio” e condirla con l’olio nuovo. Chi furono i primi a comprendere l’alto valore nutrizionale, e poi economico, di questo pregiatissimo prodotto agricolo? senza andare troppo lontano nel tempo, parleremo direttamente dell’era in cui si sa per certo che l’olio di oliva cominciò a essere ampiamente impiegato per scopi alimentari. Al contrario dei greci e dei fenici, che lo utilizzavano soprattutto per l’illuminazione, la cura del corpo e solo raramente nell’alimentazione, i romani furono i primi a farne un uso massiccio per scopi alimentari, tanto che l’olio d’oliva diventò presto un bene di primaria importanza. Essi arrivarono a farne incetta in tutte le province, chiedendo tributi annuali pagabili con il prezioso alimento. La maggior parte delle navi dell’antica roma erano infatti le cosiddette “navi olearie” che trasportavano anfore sistemate nelle stive in modo da poterne contenere il più possibile. Si pensi che il “Monte testaccio” (dal latino testa, che significa “coccio”), il quale con i suoi 54 metri di altezza e un km di larghezza è uno dei più importanti sette colli artificiali di roma, è stato formato dai resti di milioni di anfore olearie, che qui erano depositate dopo che, svuotate del contenuto, venivano frantumate. Le anfore utilizzate per il trasporto dell’olio erano, infatti, “vuoto a perdere”, perché i residui di olio, assorbiti dalla porosa terracotta, a contatto con l’aria irrancidivano, pregiudicando la salubrità di qualsiasi prodotto vi fosse successivamente riposto.
Proprio grazie ai resti delle anfore del testaccio, costituito da 53 milioni di recipienti, si stima che in quegli anni roma, per soddisfare la domanda interna di un milione di abitanti, abbia dovuto importare 6 miliardi di litri di olio d’oliva!
Il prodotto era, quindi, un bene molto ricercato e i romani lo distinguevano in almeno 5 qualità: Ex albis ulivis il migliore, spremuto da olive fresche ancora verdi; Viride con olive la cui invaiatura cominciava a divenire più scura; Maturum con frutti a piena maturazione; Caducum con olive raccolte da terra, e Cibarium, ottenuto con le olive più rovinate. Quest’ultimo risultava immangiabile, in quanto ricavato da olive bacate, raccolte da terra e spremute per ultime. Aveva perciò fermentazioni importanti e veniva dato agli schiavi o, più spesso, usato come combustibile per le lampade ad olio (da qui il termine “lampante” per gli oli non commestibili), di cui roma faceva grande uso per l’illuminazione notturna della città.
Già a quei tempi l’olio risultava un prodotto molto costoso, dove la qualità Ex albis ulivis era riservata a ricchi e nobili. Plino scriveva,infatti, che i cavoli non erano assolutamente un cibo economico, in quanto dovevano essere conditi con molto olio! da recenti ricerche emerge che nell’antica roma l’olio era indispensabile per la vita quotidiana e ogni cittadino ne aveva bisogno per l’igiene, per la cucina, per l’illuminazione, per lubrificare, per svolgere vari riti religiosi e, infine, per medicare ferite. Oggi, in italia, il consumo pro capite è di circa 17 litri l’anno, mentre nell’antica roma si è stimato che si arrivasse ad una media di 60 litri. Un civile, per uso alimentare, ne consumava circa 20 litri l’anno, mentre un legionario, per lo stesso motivo, arrivava a utilizzarne ben 130 di litri, in quanto gran parte del cibo di cui si nutriva veniva conservato sott’olio.
Per questi motivi l’olio di oliva veniva chiamato da romani e greci anche “oro liquido”, diventando un’importante
moneta di scambio (spesso preferita al denaro) nonché un formidabile mezzo per giungere al potere. Gli imperatori si guadagnavano popolarità e rispetto prevedendo aiuti alle famiglie romane più bisognose, distribuendo loro, gratuitamente, generi di prima necessità come il pane, i legumi, la carne e soprattutto l’olio. Anche per questo, era importante, allora, ottenere la cittadinanza romana.
Adriano che, come traiano, era nato ad italiaca, un’antica città a sud della spagna, vicina a siviglia, apparteneva al clan dell’olio dell’hispania Baetica (l’andalusia odierna). Tuttavia, l’olio andaluso, come quello africano, era considerato lampante dai romani, quindi non utilizzabile se non per l’illuminazione. Infatti, il trasporto degli alimenti, anche di pochi chilometri dalle zone di produzione, con le strade e i mezzi di allora, comportava spesso la rovina precoce delle merci, che giungevano a destinazione con traumi, fermentazioni e ossidazioni importanti.
L’unico modo per conservare l’olio durante un lungo viaggio era quello di salarlo, ma questo ne comprometteva qualità e gusto. All’epoca, la vicinanza delle zone di produzione agricola di qualità doveva risultare strategica per chi, per ragioni politiche come Adriano, aveva la necessità di realizzare fastosi banchetti con cui ostentare ricchezza e potenza. Poco distante da roma, ai piedi dei monti tiburtini, si estendeva e si estende tutt’oggi, una zona agricola di proverbiale fertilità, già conosciuta e citata da Columella nel suo De re rustica. E' quindi probabile che l’imperatore abbia scelto Tivoli per costruire la sua grandiosa villa non solo per la presenza dei quattro acquedotti romani (utili per le terme) e delle cave di travertino (utile materiale edile), ma anche per la fertilità del terreno, che gli garantiva abbondanti scorte alimentari di prima qualità tra cui l’olio di oliva. La villa, dalle notevoli dimensioni di circa 120 ettari, poteva contare su ben due sterminati uliveti.
Il periodo di maggior sviluppo dell’olivicoltura nel lazio, ad opera dei romani, si ebbe proprio nel ii secolo d.C. (quindi sotto l’impero di Adriano) e dall’Agro Romano antico gli uliveti si protraevano probabilmente fino alla provincia di rieti, dove ora si produce l’olio della sabina dop. Qui, a metà strada con roma, sorge maestoso uno dei più antichi ulivi del mondo ancora in vita, “l’olivone” (o in dialetto “l’u livone”) di Canneto sabino (rieti), di almeno 2000 anni. Più vecchio del- l’abnorme ulivo “Albero Bello” di Villa Adriana a Tivoli, che di anni ne ha “soli” 580, ma che misura ben 16 metri di altezza, per una circonferenza di 6 metri: un’inconfutabile testimonianza della fertilità del terreno dove Adriano volle costruire la sua abitazione “extraurbana”.
Di rigogliosi ulivi ultracentenari, in questa zona fertile dell’agro romano antico, se ne trovano diversi, così come in tutto il centro italia. In Toscana, per esempio, vi sono i resti de “l’ulivo della strega”, una pianta dal legno in gran parte ormai pietrificato che, però, stando all’analisi condotta dal Cnr di firenze, pare superi di età gli ulivi dell’orto del getsemani dove, narrano i Vangeli, Gesù di Nazareth si ritirò in attesa di venire arrestato dopo il tradimento di Giuda Iscariota.

(di Mauro Gaudino © - copyright 2016)

 
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